Si è Salentini o Sallentini

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17 settembre 2023

di Nazareno Valente * –

Le fonti narrative antiche risultano a volte evanescenti, lasciando di conseguenza indefinite questioni di grande importanza storica, oltre a quelle di semplice curiosità. Tra queste ultime ne possiamo annoverare due che sollevano spontanei quesiti sulle antichità della nostra terra.

La prima riguarda la circostanza che, nelle fonti greche, parte degli abitanti del Salento siano denominati Salentini («Σαλεντῖνοi», «Salentinoi») che, invece, in quelle latine diventano Sallentini, con raddoppio della “l”. Sicché ci si chiede quale tra questi due voci, Salentini o Sallentini, debba considerarsi quella corretta e più corrispondente al termine originario.

La seconda, ancor più di dettaglio, concerne i restanti abitanti dell’attuale Salento, tra i quali erano compresi i Brindisini e tutte le altre comunità limitrofe per lo più stanziate sulla costa adriatica e nell’Alto Salento. Questi, che si autodefinivano Calabri, avevano comunanza di stirpe con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — però avevano per l’appunto un etnico diverso che li caratterizzava. Malgrado ciò, le fonti latine usavano in maniera usuale anche per loro il termine Sallentini, sebbene si trattasse di una comunità ben distinta.

Per dirimere queste apparenti stranezze occorre partire da lontano risalendo sino alla più antica menzione giunta a noi del Salento.

La prima volta che le residue fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata, riportando che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.

Erodoto, busto dello storico greco

Erodoto — che, piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra penisola. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi la penisola salentina.

Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire il Salento ed i nostri concittadini d’una volta. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.

La genesi di questa popolazione si ritiene avvenuta in un’epoca collocabile tra l’età del bronzo e quella del ferro, grazie all’apporto di genti d’origine illirica. Più nel dettaglio, gli studiosi concordano nel credere che, su una cultura locale preesistente, si siano inseriti apporti esterni in misura significativa di provenienza illirica. Su una simile ipotesi propendevano pure alcuni storici antichi i quali, però, come era loro abitudine, facevano risalire l’avvenimento ad un ben determinato episodio collocato in epoca mitica. Nello specifico ricorsero a Licaone, leggendario re degli Arcadi, al quale si attribuivano cinquanta e più figli, tra i quali Iapige, Dauno e Peucezio.

La tradizione, naturalmente di matrice greca, prevedeva che gli originari Iapigi s’erano poi ripartiti in tre popolazioni diverse: i Dauni a nord della Puglia, nella penisola del Gargano, i Peucezi nella zona centrale, tra il fiume Bradano, le Murge ed il fiume Ofanto, ed i Messapi nella parte meridionale a sud dell’istmo che collega Taranto e Brindisi sino a Santa Maria di Leuca2.

Di là dal mito, la ricostruzione storica riconosce che gli Iapigi estesero il loro dominio sulla Puglia e su alcune zone della Lucania e dell’attuale Calabria fino a Crotone. Dai riferimenti archeologici è possibile poi ricavare che la popolazione Iapigia mantenne una qual certa unitarietà sino alla fine del IX secolo a.C., quando questa compattezza socioculturale incominciò a sfilacciarsi. Gli abitanti dell’estremo Basso Adriatico erano infatti venuti in contatto con il flusso precoloniale di quel periodo e subivano i primi influssi della cultura ellenica; circostanza questa che li portò da principio a differenziarsi dalle popolazioni stanziate nella parte settentrionale della Puglia e, successivamente, pure da quelli della zona centrale. A quell’epoca gli storici antichi fanno risalire la ripartizione canonica della Iapigia in Daunia, Peucezia e Messapia che, nei nomi usati, soggiace di fatto alla visione etnocentrica con cui i Greci erano soliti valutare tutto ciò che era di là dai propri confini.

Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.

In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a sentirci chiamare Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, in maniera passiva e a differenza dei nostri antichi concittadini ben più garanti delle proprie radici, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.

Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.

Strabone, disegno del geografo, storico e filosofo greco

Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»3), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi», «Salentinoi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ», «Calabroi»). Successivamenteci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).

In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.

In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentini «è attorno a Capo Iapigio» («τὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»5) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentini erano limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione era abitato dai Calabri. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei6.

Senza dilungarsi più del necessario, si riporta il seguente schema che ne riassume le possibili conclusioni.

Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, RudiaeStatio Miltopes (forse San Cataldo), FratuentumPortus Tarentinus, Otranto.

Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.

Insediamenti Sallentini e Calabri (ricostruzione di N. Valente)

Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini con una sola “l”.

Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra solo dopo che essa entrò nell’orbita romana. Però, in precedenza i Romani avevano già avuto contatti diretti con i Sallentini, mentre degli abitanti stanziati nell’Alto Salento e sulle coste dell’Adriatico, cioè a dire i Calabri, avevano una conoscenza appena mediata dai Greci, tanto è vero che per identificarli usavano il termine Messapi da questi coniato.

È quanto emerge dall’unico riscontro ricavabile sull’argomento. I Fasti triumphales Capitolini che, rifacendosi ai termini più arcaici in uso, riportano infatti il trionfo tributato per la vittoria conseguita nel 266 a.C. dai consoli Numerio Fabio Pittore e Decimo Giunio Pera sui «Sallentineis Messapieisque» (Sallentini e i Messapi)7, dove quindi i Calabri, sono chiamati alla greca Messapi, mentre per la restante popolazione della Calabria si usa il termine locale di Sallentini con il raddoppio della “l”.

Successivamente, dopo che ebbero conquistato il Salento, i Romani utilizzarono in maniera quasi esclusiva la terminologia indigena, a differenza dei Greci che, come già riportato, privilegiavano termini di propria ideazione. In pratica, il mondo latino accantonò i termini coniati dai Greci per divulgare solo quelli d’origine autoctona.

Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.

Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti risolto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.

Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera esclusiva i vocaboli indigeni.

La nostra terra fu quindi conosciuta d’allora in poi con il nome di Calabria8 ed i popoli che vi abitavano venivano definiti, a seconda della zona di residenza, Calabri9 e Sallentini, in definitiva con i vocaboli di derivazione locale. Tuttavia, a differenza ad esempio del geografo Mela e del naturalista Plinio il Vecchio più rigorosi nell’impiego dei termini, gli storici ed i letterati latini erano soliti denominare Sallentini tutti i residenti della regione, a prescindere che fossero tali oppure Calabri10. Sicché i Brindisini venivano detti più spesso Sallentini, sebbene in realtà fossero Calabri. Il perché di questo uso diffuso del termine Sallentini, anche per chi Sallentino non era, ha una risposta che pare ovvia: i Romani avevano avuto i loro primi contatti con i Sallentini e conseguentemente assimilarono ad essi anche i restanti abitanti della penisola, considerata la comunanza di stirpe. Un qualcosa del genere era avvenuto con altre popolazioni, ad esempio, i Sanniti che, pur componendosi di vari gruppi minori — quali Caudini, Irpini, Pentri, Carricini ed anche altri più o meno affini — venivano accomunati dagli storici romani sotto un solo etnico, appunto quello di Sanniti. Di fatto gli autori non entravano in questi dettagli e facevano uso del termine al quale i loro lettori erano più abituati e con cui avevano maggiore familiarità. In aggiunta, occorre rilevare che gli storici, in particolare Tito Livio che non fa mai menzione dei Calabri, raccontavano la storia dell’Urbe in una visione romanocentrica, dove non c’era spazio per le particolarità etniche delle popolazioni con cui i Romani guerreggiavano. In definitiva, si lasciavano questi distinguo ai geografi ed ai naturalisti, più sensibili a rilevare tali differenze, e si adoperava in maniera usuale il termine di più facile comprensione per il lettore.

Elmi in bronzo calabro-sallentini (325-275 a.C.)

Meno semplice da dirimere è l’altra questione, vale a dire come mai un termine di matrice indigena era reso, nella traslitterazione in lingua greca con una lambda — corrispondente alla “l” latina — («Σαλεντῖνοi», Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini). E, in particolare, quale di queste due trascrizioni possa ritenersi più corrispondente alla voce originaria.

Già per il fatto stesso che, a differenza dei Greci, i Romani fossero poco propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni e, in altre parole, più rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui avevano a che fare, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina.

Si aggiungano poi due ulteriori considerazioni che consentono di poter avvalorare ancor più questa ipotesi.

Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone11 e Cicerone12. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta. E perciò possibili garanti, con il loro rigore, della correttezza della trascrizione latina.

Ma quel che più conta è da rilevare che, quando il vocabolo s’impose, veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.

Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.

Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine «Ελλάδα» (Elláda) lo pronunciano Eláda.

Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri antichi concittadini, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne trascritto in greco «Σαλεντῖνοi» (Salentinoi), con una sola lettera lambda.

Pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario e che, in conclusione, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri antichi concittadini, sebbene, all’atto pratico, è la versione greca che poi si è imposta entrando nell’uso comune.

Uno dei tanti esempi, pertanto, in cui la moneta cattiva è riuscita a scacciare quella buona.

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Note
ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.
2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.
STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.
4 Ibidem, VI 3, 5.
5 Ibidem, VI 3, 1.
N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.
7 N(umerius) Fabius C(ai) f(ilius) M(arci) n(epos) Pictor II co(n)s(ul) an(no) CDXXCVII | de Sallentineis Messapieisque K(alendis) Febr(uariis) | D(ecimus) IuniusD(ecimi) f(ilius) D(ecimi) n(epos) Pera II co(n)s(ul) an(no) CDXXCVII | de Sallentineis Messapieisq(ue) |. Epigraphik-Datenbank Clauss / Slaby, http://www.man-fredclauss.de/it/.
8 Persiste in alcuni cronisti brindisini, forse influenzati dalle schede di Wikipedia, l’opinione ricorrente che la denominazione Calabria sia d’invenzione romana e non di origine locale.
9 Non pochi cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi, etnico questo con cui, invece, si individuano gli abitanti dell’attuale Calabria; altri addirittura Calabrienses. In quest’ultimo senso, Carito, parlando del concilio di Nicea del 325 a cui partecipò Marco, metropolita Calabriensis, afferma: «ossia del Salento», come se il vocabolo, Calabriensis, fosse adoperato anch’esso per identificare un residente della penisola salentina (G. CARITO, Gli arcivescovi di Brindisi sino al 674, in “Parola e storia”, Anno I, n. 2/ 2007, pp. 197 e 206). Al contrario gli abitanti della Calabria antica erano detti Calabri e, per riferirsi a qualcosa di relativo alla loro terra, si usava al più l’aggettivo Calabricus. Quindi non erano né Calabresi, né tantomeno Calabrienses.
10 Per una più ampia analisi, si veda: VALENTE, Cit., pp. 104 e 105. (https://www.academia.edu/35875669/La_penisola_salentina_nelle_fonti_narrative_antiche).
11 CATONE (III secolo a.C. – II secolo a.C.), De Agricultura, VI 1.
12 CICERONE (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Pro Sesto Roscio Amerino, 132.


Fonte: Il Grande Salento.it – Rivista online di Brindisi Lecce Taranto

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